Non basta la notte delle foglie
che d'improvviso si fa argento
se il meriggio inchiostra di luce
i nostri volti affaticati al sole,
le palpebre strette a non contenere
la parte di morte estatica nella luce
cantata aperta dalla gola del cielo,
troppa avidità di mondo non è nostra
di tenera carne, ma il suo tronco
è scura radice alta dalla terra,
contorta mano tutta la regge
l'infiammata giostra che noi ci logora
di collina in collina nell'abbaglio
dove fulineamente recliniamo.
Forza di radice nutrita dall'aria del lampo
si sta tra terra e cielo rammemorando
immobile il presente. Non è per noi l'ulivo
di troppe fiamme, ci ha dato
la luce tenue della lampada che l'abbassi
nella stanza se piangi, non ti sentano
di là nello scalpiccio affaccendato loro
che ti hanno nel friabile cuore e ti tengono
e l'olio per la ferita fatta dolce molle,
la carne tra sé baciante nei lembi
fino alla cicatrice, unica medaglia,
che giorno in giorno sfreghiamo con le dita
perché ci tenga in noi, nell'avvenuto tempo
e in ultimo il balsamo che leviga l'inguine
lo fa nuovo di bell'incarnato chiarito perché
resistano, nella piana degli ulivi, gli amanti,
non si lascino sciogliere mai, mai disfare.
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